Cinque benefici della danza: perché studiarla?

Danza, arte e teatro sono spesso considerati materie di ‘serie B’ negli istituti scolastici, quando invece dovrebbe vedere riconosciuto lo stesso status di discipline come scienze, matematica e lingua straniera, in quanto contribuiscono all’educazione del bambino nella sua interezza, fisica ed emozionale, per le ragioni che vediamo nel seguito.

5 Benefici

  1. Migliora la memoria – In ogni classe di danza si imparano dei passi nuovi, anche delle semplici sequenze alla sbarra che aiutano a stimolare la nostra memoria. E’ un validissimo esercizio per la mente che piano piano troverà sempre più facile memorizzare anche sequenze più lunghe.
  2. Diminuisce lo stress – La musica che guida la lezione, lo stretching prima e dopo gli esercizi sono tutti elementi che aiutano il corpo a liberarsi dello stress accumulato. Ecco perché sempre più aziende, soprattutto all’estero, offrono ai dipendenti la possibilità di seguire delle classi di danza.
  3. Corregge la postura – Chi lavora in ufficio sa bene quando la nostra schiena assomigli più a una S a fine giornata che a un dorso sano. La danza, fatta con la dovuta attenzione, ci aiuta a distenderla, a tenerla dritta e a creare spazio fra una vertebra e l’altra evitando facili schiacciamenti.
  4. Rende flessibili i muscoli – Studiare danza classica permette di riacquistare una buona flessibilità muscolare e consente pian piano di ritrovare agilità ed evitare spiacevoli contratture.
  5. Aiuta la formazione del carattere e apporta alla persona consapevolezza del proprio corpo e della propria autostima.

L’importanza della danza tuttavia non riguarda esclusivamente le relazioni sociali, ma anche il rendimento scolastico. Fattori fisici come obesità, problemi cardiovascolari, pressione sanguigna e densità ossea infantile, così come depressione, ansia e bassa autostima chiaramente influenzano il rendimento scolastico. La danza ha dimostrato quindi di poter influenzare positivamente l’apprendimento, unendo linguaggio corporeo e verbale, regalando benessere psico-fisico e dando vita a un circolo virtuoso che non possiamo più ignorare.

Sara Zuccari

Rudolf Nureyev. Biografia di un ribelle per ricordare l’ultimo zar della danza

Aveva il carisma e la semplicità di un uomo della terra, e l’arroganza inaccessibile degli dei.” Michail Barysnikov

È questa la citazione che si legge, accanto a quella di Paul Valéry, sulla prima pagina del volume “Rudolf Nureyev, biografia di un ribelle”, pubblicato dalla casa editrice torinese Lindau  e firmato da Bertrand Meyer-Stabley. Il giornalista e scrittore francese, tra le numerose biografie dedicate a grandi personalità come James Dean, Juan Carlos, Elton John e Audrey Hepburn, ne dedica una anche a colui che fu l’ultimo zar della danza, come lo definisce lui stesso con le ultime parole della sua corposa ed appassionante biografia.

Suddivisa in 17 capitoli, questa biografia ha l’aspetto di un vero e proprio romanzo che ripercorre la vita eccezionale di un mito intramontabile della danza. Fin dalla nascita, avvenuta nel 1938 su un vagone della Transiberiana, quando la madre Farida Nureeva incinta di otto mesi e mezzo sale sul quel treno diretto a Vladivostok, l’intera vicenda esistenziale di Rudolf Nureyev è stata a tutti gli effetti un romanzo ed uno dei più belli ed emozionanti che si possa leggere. Rudolf Nureyev un giorno ha detto: “Mi piace parlare della mia nascita… Ci ripenso sempre come all’avvenimento più romantico della mia vita”.

Si apre con questa testimonianza il primo capitolo titolato non a caso “Primi passi” che ci racconta anche dell’incontro di Rudolf con la sua prima maestra di danza, la Signora Udal’cova, che aveva ballato anni prima nella compagnia dei Balletti Russi di Djagilev e che, non appena vide ballare il piccolo Rudy di appena undici anni, disse con sorprendente lungimiranza: “Ragazzo mio, hai il dovere di imparare la danza classica. Con un dono così, bisogna che tu vada a studiare con gli allievi del Kirov a Leningrado…”.

Nel 1955 entra a far parte infatti della prestigiosa scuola di ballo del Teatro Kirov di Leningrado, la scuola che aveva formato anche Pavlova e Nijinsky. Tre anni dopo viene ammesso nella Compagnia e da lì Nureyev avrebbe letteralmente spiccato il volo raggiungendo vette non ancora eguagliate e diventando per tutti, anche per noi oggi, il “tartaro volante”.

Ai racconti artistici si intrecciano quelli umani che spaziano dall’asilo politico del 1961 alle relazioni omosessuali con famosi artisti, all’incarico di direttore della danza all’Opéra di Parigi, alle perfomance come direttore d’orchestra, fino alla morte, avvenuta per aids nel 1993.

“Sotto un sole freddo simile a quello della Russia, in quel paesaggio di croci ortodosse, tombe zariste, pinnacoli a bulbo, betulle e abeti argentati, ognuno si chiude in un assorto raccoglimento. Poi gli ammiratori si avvicinano per gettare un giglio bianco sul feretro di colui che, attraversando il mondo di corsa, fu l’ultimo zar della danza”. Si conclude così questa avvincente biografia che oltre ad essere un’importante testimonianza storica, vuole essere soprattutto un omaggio al genio indimenticabile di Rudolf Nureyev.

Alessandra Ferri la danza fatta persona e orgoglio della nostra nazione

Alessandra Ferri è  oggi considerata Internazionalmente una delle più importanti ballerine del mondo e orgoglio della nostra nazione.

I primi passi di danza li fece alla Scuola del Teatro alla Scala di Milano, ma, dai 15 anni in poi studiò presso la Royal Ballet School. A soli 19 anni era già Principal Dancer del Royal.

Domanda di rito, come è nata per Alessandra Ferri la passione per la danza?

È nata con me, credo. Mi ricordo che sin da piccola, avevo tre anni, in casa inventavo delle coreografie con la musica. Era tutto talmente naturale e spontaneo, sono sicura che la danza sia una passione innata dentro di me. Poi mi fece scattare la scintilla il primo balletto che vidi a Monza, dove i miei genitori si erano trasferiti, alla visione rimasi folgorata e chiesi alla mia famiglia di essere iscritta ad una scuola di ballo.

Fu infatti prescelta da Sir Kenneth MacMillan come protagonista dei suoi balletti Romeo e Giulietta, Manon, Mayerling. La Ferri si rivelò subito un’interprete eccezionale. In lei tutto parla, ogni gesto, ogni sguardo, ogni movimento; tutto è messo la servizio del ruolo che deve interpretare, non si risparmia in nulla, pur di rendere credibile il suo personaggio ed emozionare il pubblico, emozionandosi lei stessa per prima.

A soli diciannove anni diventa la principal dancer del Royal Ballet. Una grande responsabilità!

Una responsabilità enorme direi, ma ricordo di quegli anni la forte dedizione che avevo per raggiungere la mia missione. Certo è che non ho vissuto la mia adolescenza perché le responsabilità erano molte, pensi così giovane debuttare al Covent Garden in ruoli creati appositamente per me era una prova ardua. Però è stato tutto meraviglioso e allo stesso tempo difficile.

Alessandra Ferri non mostra infatti come si possa ballare con espressività, ma trova l’impulso giusto per rendere i passi che esegue inevitabili: “Quando io danzo ho la necessità di essere assolutamente vera, di farmi toccare l’anima dal mio partner, di toccargli io il cuore, di amare veramente”.

La sensibilità della Ferri è veramente particolare e preziosa; di questo si accorsero gli inglesi e soprattutto Sir MacMillan, che creò per lei A Different Drummer, Valley of Shadows.

Nel 1985 raggiunse l’American Ballet Theatre, accogliendo l’invito di Mikhail Baryshnikov; con questa compagnia ha ballato i ruoli dei più importanti balletti del repertorio classico, effettuando tourneé in tutto il mondo e ancora oggi continua ad essere Guest Artist.

Baryshnikov la definì: “Una classicista con limmaginazione di Isadora Duncan”.

New York è la Sua seconda casa… Dove ha scelto di vivere con la sua famiglia?

Sì, New York è la mia seconda casa, ci vivo dal 1985; in realtà ho passato più anni in America che a Milano. La prima volta che vi andai fui invitata da Michael Baryshnikov, quando era direttore della compagnia, come étoile ospite al Metropolitan.

E Michael Baryshnikov?

È stato un incontro fondamentale per la mia carriera e per la mia formazione. È stata per me una prova molto importante, ho avuto sicuramente un coraggio da leoni, perché quando ho ballato con lui avevo ventun’anni e lui era all’apice del successo, bello, bravissimo e richiestissimo. Da Baryshnikov ho imparato molto, anche perché è molto pignolo e maniaco della perfezione. Ricordo quella bellissima Giselle per la TV di Herbert Ross, danzata insieme a lui nel 1987, in cui mi è stato riconosciuto dalla critica il ruolo e l’interpretazione del personaggio, direi, tra i ruoli romantici, quello che mi si addice di più. Perché Giselle? Perché non è una fiaba, è un personaggio vero, una donna, con tutte le sue sfaccettature e sentimenti, io amo interpretare personaggi reali, per questo mi ci rispecchio moltissimo.

Affermatasi ormai come étoile internazionale, è stata invitata come artista ospite nelle compagnie più prestigiose di danza di tutto il mondo. Nel 1992 Roland Petit la chiamò all’Opéra di Parigi per interpretare il ruolo di Carmen: per la prima volta un’artista italiana veniva invitata come ospite di questa compagnia. Roland Petit le affidò in seguito altri balletti (La Chambre, Coppelia, Le Diable Amoreux, e molti altri) e le propose nel 1994, di interpretare La Voix Humaine, sul testo di Cocteau, in cui danza e recitazione si fondono insieme.

Alessandra Ferri è stata anche la musa ispiratrice di molri coreografi contemporanei come William Forsythe; che creò per lei Quartetto.

Da ricordare l’indissolubile legame leggendario e onirico della coppia Alessandra Ferri e Julio Bocca, un sincrono perfetto dove passione ed eleganza si fondono in un sogno assoluto.

Che cosa è la danza per Alessandra Ferri?

È lo specchio dell’anima che si muove per via del “fuoco sacro” della danza e solo chi lo possiede può sapere a cosa mi riferisco.

Un sogno nel cassetto?

Mi piacerebbe tornare alla Scala con un nuovo progetto, fare qualcosa di interessante in questa nuova fase della mia vita. Sono molto legata alla Scala, è il mio teatro come, del resto, sono legata al pubblico milanese.

Nella vita della Ferri ci sono stati grandi amori, oltre a quello più forte e totale per la danza. Nel 1996 conosce Fabrizio Ferri, fotografo e artista, ed entrambi si innamorano l’uno dell’altra, un sentimento travolgente che li unisce. I due si sposano e dalla loro unione nascono Matilde ed Emma. Suo marito è autore degli scatti più intensi ed emozionanti che la ritraggono e immortalano per sempre perfetta e imperturbabile.

Nel 2013 la danzatrice compie 50 anni. Un traguardo che Alessandra Ferri vuole celebrare annunciando inaspettatamente il suo ritorno in palcoscenico. Tra lo stupore e la gioia di tutti, Alessandra si concede nuovamente al suo pubblico che tanto l’ha amata e che ha di nuovo l’occasione di ammirarla.

Nel dare una spiegazione alla sua decisione, la Ferri dichiara con molta sincerità di voler proseguire nel suo percorso di vita di donna con un rinnovato approccio alla danza:

 “mi piace pensare che questo non sia un ritorno sulle scene ma un andare avanti nella mia vita artistica che non è slegata da quella di donna”.

Nel 2015 e nel 2017 danza alla Royal Opera House in Woolf Works, un balletto di Wayne McGregor ispirato agli scritti di Virginia Woolf. Per la sua performance vince il Laurence Olivier Award per l’eccellenza nella danza. Nel 2019 torna a danzare al Teatro alla Scala il balletto di Mc Gregor con enorme successo.

Nel frattempo si è sviluppato uno stretto legame con il Teatro alla Scala e Roberto Bolle, dove dal 1992 è diventata ballerina assoluta della compagnia, la più alta carica che una Stella della danza può ricevere.

Sara Zuccari

Mats Ek: l’arte della coreografia fatta persona

Mats Ek, il coreografo di spicco dei giorni nostri, nato a Malmö, in Svezia. La prima cosa che colpisce della sua vita è senza dubbio l’ambiente in cui è cresciuto: una famiglia di artisti, tutti di altissimo livello, in cui tutti fanno teatro e collaborano tra loro, a tal punto che non è semplice riconoscere i confini tra vita e arte. Mats è infatti il figlio di Birgit Cullberg (la “madre” della danza moderna in Scandinavia, danzatrice e coreografa illustre, nonché fondatrice del Cullberg Ballet) e di Anders Ek (grande attore teatrale e cinematografico, tra i preferiti di Ingmar Bergman); è anche il fratello minore di Niklas Ek, ottimo danzatore che ha lavorato in prestigiose compagnie (Cullberg Ballett, Merce Cunningham Dance Company, Ballet du XXe siècle) e ha una sorella gemella, Malin, attrice, e una cugina scenografa, Karin Ek.

Certamente la madre, una figura così importante nel panorama della danza contemporanea, ebbe un ruolo fondamentale e una grande influenza nella formazione artistica dei figli, e di Mats in particolare che, come lei, si dedicò presto alla coreografia. Inoltre, i genitori di Mats si separarono quando lui aveva solo un anno e l’assenza del padre rese ancora più significativa la figura materna. In realtà, il primo approccio di Mats, Niklas e Malin con la danza non fu positivo, poiché la danza era per loro un qualcosa che teneva la madre lontano da loro ed era quindi sinonimo di sofferenza.Birgit Cullberg, nel momento in cui decise di iniziare lo studio della danza classica con l’insegnante Lilian Karin, tentò di coinvolgere i tre figli, ma questi lasciarono subito perché non lo trovarono divertente. Lilian Karin ricorda le doti creative di Mats bambino, le piccole performances che egli organizzava a scuola per il piacere di esibirsi di fronte ad un pubblico che lo applaudiva.

In seguito, all’età di 17 anni, Mats, insieme al fratello Niklas, fu portato dal padre a lezione da Donya Fener, una danzatrice americana dalla quale apprese la tecnica Graham. Fu per lui un momento particolarmente importante che egli stesso ricorda così: «Quando, a 28 anni, ho iniziato a danzare, i tre mesi di studio della tecnica Graham che avevo fatto a 17 anni erano fortemente impressi nel mio corpo: quell’esperienza, quella memoria corporea forte, furono il mio punto di riferimento».
Dopo aver studiato teatro e nonostante i successi riscossi con le sue prime esperienze come regista, Mats decise di dedicarsi totalmente alla danza, perché sentiva l’esigenza di interpretare qualcosa e la danza gli sembrava il mezzo più adatto, il più naturale. Entrò così nel Cullberg Ballet e qui lavorò con grandi coreografi, come Kurt Jooss, Maurice Béjart, Jiri Kylian.

Presto però, intorno agli anni ’70, iniziò a dedicarsi alla coreografia, per la quale si accorse subito di avere un’eccezionale inclinazione e delle doti rare da trovare. È infatti come coreografo che Mats Ek si è imposto nel panorama internazionale della danza e la sua creatività geniale è oggi riconosciuta da tutti.
Le sue prime creazioni, come San Giorgio e il Drago, Soweto, La casa di Bernarda, sono accomunate dalla presenza di temi politici e sociali, a tal punto che la critica lo definì subito come un coreografo politicamente impegnato.

Ma è stato certamente con la sua versione di Giselle, presentata per la prima volta nel 1982, che Mats si è rivelato in tutta la sua grandiosità. La critica, pur riconoscendo all’unanimità tale lavoro come un capolavoro, gli rimproverò di aver abbandonato i temi impegnativi in favore delle favole; e tuttavia la sua Giselle non è affatto un’opera disimpegnata. In questo balletto Mats focalizza l’attenzione sugli esseri umani, scavando nei loro pensieri e sentimenti, analizzando le loro caratteristiche psicologiche, i loro comportamenti, il loro modo di relazionarsi. Di Giselle, una pietra miliare del balletto classico, egli dà una sua personalissima e quasi rivoluzionaria lettura, in cui la protagonista è una povera fanciulla di paese, debole di mente e di cuore, incapace di controllare gli istinti e le emozioni da dover essere tenuta legata. Così vive senza pudori e senza riserve, manifesta il suo amore ad Albrecht, dichiarandogli il suo desiderio di avere un figlio. Il II atto poi non è ambientato in un bosco incantato, come la Giselle ottocentesca, ma in un ospedale psichiatrico e non ci sono le vendicative Willi in tutù bianco, ma donne in camicia di forza.
La Giselle di Mats Ek è fortemente legata ad Ana Laguna, la prima interprete, senza la quale egli stesso riconosce che il personaggio di Giselle non sarebbe nato; Ana Laguna è oggi compagna di vita di Mats e madre di due dei suoi tre figli.
Dopo Giselle, Mats Ek riscrisse molti classici del balletto, sempre in maniera originale e rivoluzionaria: Il Lago dei Cigni, Carmen, La Bella Addormentata, ad esempio.
La caratteristica principale del suo linguaggio coreografico è il desiderio di comunicare, di dar voce all’anima attraverso il corpo; a lui non interessa la danza “pura”, in quanto la danza è per natura espressione, comunicazione. Afferma infatti: «Non potrei fare coreografie che fossero esclusivamente formali, invidio chi lo fa, ma io non ne sono capace».
La sua danza è chiara, parla sempre dell’uomo, in essa ogni movimento ha una propria ragion d’essere perché serve a dire qualcosa. Egli è convinto che un movimento espressivo, se è autentico, è sempre bello, ma se il suo fine è la bellezza, può anche risultare sgradevole. Nei balletti di Mats, quindi, è senza dubbio prioritaria la forza espressiva alla “pulizia” e perfezione tecnica.

L’idea della danza come comunicazione è certamente stata ereditata dalla madre, Birgit Cullberg, che a sua volta l’aveva ripresa da Kurt Jooss. Mats Ek, per realizzare un corpo “parlante”, fonde elementi tecnici con movimenti del tutto nuovi, colti dalla vita quotidiana. Nel suo linguaggio, le mani e i piedi hanno una grande funzione espressiva e spesso si muovono indipendentemente dal resto del corpo. Ogni parte del corpo è coinvolta nella realizzazione della comunicazione; ma ciò che più colpisce dei suoi danzatori è sicuramente la forza espressiva del volto. Spesso utilizza anche degli oggetti, veri e propri partners dei danzatori, e grande importanza hanno nei suoi balletti anche i costumi e le scenografie.
Il suo procedimento creativo non prevede l’improvvisazione, ma ciò non significa che non sia altrettanto importante per lui l’apporto dei danzatori nella costruzione di un personaggio. Mats è solito arrivare alle prove con la coreografia già pronta e curata nei minimi dettagli (anche nel rapporto con la musica) e con una serie di immagini, articoli di giornale, come stimolo da mostrare ai danzatori. I danzatori apprendono così la coreografia per imitazione, ma possono sbagliare ed è proprio dall’errore che possono nascere nuove idee.

I personaggi femminili (interpretati da danzatrici rigorosamente scalze) sono per lui il motore dell’azione, subìta dagli uomini; la figura della madre (non sarà certo un caso!) è una costante nei suoi balletti, così come sono spesso presenti gli atti di nascita. Chiaramente, se il parto è l’origine della vita, la madre rappresenta il motore stesso della vita. Un’altra costante dei suoi lavori è l’ironia: egli è convinto che se una situazione è spinta al limite della tragedia ha già in sé un po’ di comicità; Mats si diverte proprio a camminare su questa sottile linea di divisione tra pianto e riso. Molti suoi lavori si ispirano a drammi teatrali o a testi letterari, hanno quindi un carattere narrativo; ma c’è anche un Mats Ek surreal-impressionista (Grass, The Park).
Mats Ek ha realizzato anche coreografie per il teatro e per la televisione (Smoke, Wet Woman). Nel 1993 ha lasciato la direzione del Cullberg Ballet, per proseguire la sua carriera in maniera indipendente e negli ultimi anni si sta dedicando soprattutto al teatro.

Sara Zuccari

Carla Fracci, ritratto di un mito dei nostri giorni

Carla Fracci è per tutti la personificazione danza. È il sogno di tutte le bambine che vogliono studiare danza classica. È una donna caratterizzata da dedizione assoluta alla danza: un mito vivente del balletto. Dietro al mito costruito di Carla, c’è la forza che lo ha creato: lei stessa. Non si è infatti costruita un personaggio, non è dovuta ricorrere a continue revisioni e adeguamenti dell’immagine, come tante persone di successo, perché non è un tipo, è lei.

Il suo è un successo che non ha conosciuto periodi di crisi, ma solo una continua crescita. Eppure non è diva tradizionale; ha mantenuto la sua spontaneità e genuinità popolare; anche nella vita quotidiana, fuori dal teatro, ha la stessa eleganza, lo stesso equilibrio, la stessa nobiltà d’animo che solitamente esterna attraverso la danza: è come se fosse sempre “in punta di piedi”.

Questo suo modo di essere e di porsi agli altri ha fatto nascere sin dall’inizio alla gente una spontanea adesione alla sua persona. La danza le ha offerto, nella società delle immagini, l’opportunità di diffondere di sé un’immagine gradevole e naturale, senza forzature, nella quale spiccano i suoi occhi scuri e profondi, un corpo esile e nobile, le lunghe braccia e le grandi mani parlanti.

Ha un animo complesso e attento a ogni piccola cosa, con le sue contraddizioni e ostinazioni, in grado, tuttavia, di esprimersi con una dolcezza incredibile. Ha un carattere forte e una dolcezza un po’ ruvida di ragazza lombarda. La sua fissazione consiste nell’osservare e nel cercare di cogliere la naturalezza e lo sforzo con cui le persone comuni tentano di comunicare, nello studiare la logica dei loro gesti che lei presto trasformerà in danza, musica, partecipazione.

Questa attenta osservazione nella gestualità connessa  alla comunicazione richiama alla mente François Delsarteil teorico francese del XIX secolo che analizzò i gesti e le espressioni del corpo umano, suddividendo i movimenti in tre categorie (eccentrico, concentrico e normale) e le espressioni in tre zone (testa, busto, estremità) per arrivare ad un metodo di insegnamento del movimento.

Il Credo della teoria delsartiana, infatti è che non esiste movimento che non abbia significato; il modo di muovere le singole parti del corpo è sempre indicativo del diverso atteggiamento emozionale soggettivo, delle proprie motivazioni e della differente maniera di reagire alla situazione affrontata.

Delsarte affermò così che la prima regola dell’arte doveva essere la profonda significativa del gesto. La danza, per la Fracci, non deve mirare a sbalordire il pubblico per la bravura dei ballerini; la tecnica non va ostentata, va nascosta piuttosto, in quanto non è altro che lo strumento con il quale l’artista può offrire se stesso.

Il fine è quello di comunicare, di scavare nel profondo dell’animo umano, di chiamare tutti all’emozione di vivere ciò che sta accadendo sulla scena. Il suo viso, le sue mani, il suo sguardo sono sempre altamente espressivi, indipendentemente dalle difficoltà tecniche. È dotata di un forte istinto mimico, tipico delle grandi attrici alle quali è paragonabile anche per la ricerca che compie dentro di sé per ogni personaggio che deve affrontare.

Giulietta Masina si riconobbe nell’interpretazione che la Fracci fece di Gelsomina.

Clives Barnes l’ha definita in un suo articolo sul New York Times “una Duse della danza”. Ma l’artista si riserva uno spazio personale d’inventiva ogni sera, così da rendere unica ogni replica.

La sua storia richiama alla mente le eroine delle fiabe: è la figlia di un tranviere e di una bullonista alla Innocenti di Milano, che diventa una stella. I genitori avevano la passione per il ballo liscio e portavano spesso Carla nelle balere. Entrò alla Scala per caso: un’amica di famiglia, la moglie di un violinista della Scala, le consigliò di provare a sostenere l’esame di ammissione; lei aveva nove anni, fu ritenuta poco idonea, ma poi il suo visino tenero e i suoi occhini colpirono la direttrice, che ci ripensò.

All’età di 15 anni, vedendo danzare Margot Fonteyn, capì che la sua strada era quella e Margot il suo modello. Accettò così tutti i sacrifici, la fatica, gli sforzi, il sudore che la danza richiede. Disse: “Solo se si è sicuri di quello che si vuole ci si dimentica che dentro le scarpette di raso i piedi sanguinano. Ho lavorato, ho lavorato come qualsiasi operaio e per tutta la vita; ed è così anche oggi, senza riposo”.

Divenne prima ballerina alla Scala nel 1958; in quello stesso anno, il grande coreografo John Cranko la scelse come Giulietta nella sua versione di Romeo e Giulietta per la Fenice di Venezia. Eugenio Montale, il noto poeta, scrisse: “Carla Fracci è Giulietta… Carla eterna fanciulla”.

L’anno successivo interpretò per la prima volta Giselle per il Royal Festival Hall di Londra e nacque subito il suo grande amore per quel personaggio che più di tutti l’ha resa celebre e consegnata alla storia della danza. La Fracci portò alle estreme conseguenze la partecipazione interiore al personaggio, provocando così un arricchimento di gesti e movimenti che inserì un po’ per volta; ci fu in particolar modo una chiara scelta espressiva in alcune parti del balletto, considerate fino ad allora convenzionali, e nella sua lettura del balletto la Giselle del primo atto sembra già consapevole di ciò che accadrà nel secondo.

Tra i grandi ruoli romantici che la Fracci interpretò è doveroso ricordare anche la silfide in La Sylphide, il balletto creato da Filippo Taglioni per la figlia Maria, che segnò l’inizio della carriera romantica caratterizzata dal tutù bianco, dal salire sulle punte, dalla leggerezza eterea delle ballerine che sembrano quasi librarsi in aria.

Carla Fracci ne accetta lo stile, le movenze e la concezione, per liberare poi i sentimenti primordiali. La Fracci interpreta i ruoli romantici con coscienza moderna, usa il linguaggio di allora ma dà a quei gesti la sua anima; dove interviene con qualche cambiamento, lo fa sempre attraverso il linguaggio dell’epoca. Il successo che riscosse nel repertorio romantico fu tale che venne paragonata alla Taglioni.

Carla Fracci è anche una grande ballerina contemporanea. Il regista Beppe Menegatti, con il quale è sposata da molti anni, ha allestito per lei numerosi balletti in collaborazione con il coreografo Loris Gai (Il GabbianoMacbethPanteaIl Fiore di PietraPelléas et Mèlisande, etc…), in cui la Fracci ha sperimentato l’arricchimento dei gesti moderni, inserendo elementi di mimo su una base classica, ricercando un gesto-guida che rendesse al meglio la caratteristica psicologica principale del personaggio.

Molteplici sono stati gli spettacoli creati per lei e creati sulla sua personalità da vari coreografi (Dio salvi la ReginaAmletoRicordo di Isadora DuncanShakespeare in danza, etc.) spesso con la regia dello stesso Menegatti. Il repertorio dei personaggi da lei interpretati è sorprendente, per numero e varietà: Francesca da Rimini, Cleopatra, Gelsomina, Salomé, Medea e tanti altri, tutti caratterizzati in modo particolare. Le sue doti di grande attrice le hanno permesso di cimentarsi anche nel teatro di prosa e nel cinema.

Artista poliedrica, sempre in grado di stupire gli spettatori, Carla Fracci così parla di sé: “Per me il ballo è un lavoro, un lavoro come un altro; la mia vita è una vita come un’altra… certo, quando sono lì, per entrare in scena, ancora in mezzo alle cose solite, ma con la mente già nella danza, mi sembra quasi che la vita si possa, si debba vivere tutta insieme, in quel momento…”

Sara Zuccari